
Anna Lisa Manotti ha letto, per A libro aperto, Esistenza di Abbi Glines, ed. Hope Edizioni.

Titolo: Esistenza
Autore: Abbi Glines
Serie: The Existence Serie #1
Genere: Paranormal romance
Data di uscita: 12 ottobre 2021
Traduzione: Nino Naso
Cover: Catnip Design
Trama
La diciassettenne Pagan Moore vede le anime dei morti da tutta la vita. È una parte di sé che ha sempre tenuto nascosta. Dopo essersi resa conto che gli sconosciuti che spesso passano attraverso i muri non sono visibili alle altre persone, ha cominciato a ignorarli. Se non faceva capire che li vedeva, allora la lasciavano in pace.
Tutto cambia il primo giorno di scuola, quando Pagan vede un ragazzo molto sexy sdraiato su un tavolo da picnic, che la fissa con un sorrisetto divertito. Non solo lui non appartiene al mondo dei vivi, e non scompare neanche quando lei comincia a ignorarlo, ma fa anche una cosa che nessun’altra anima ha mai fatto prima: le parla.
Pagan è affascinata dal ragazzo fantasma, con lui è tutto diverso e lei comincia a provare qualcosa di profondo nei suoi confronti. Il ragazzo però non è un’anima come tutte le altre e ben presto infrangerà ogni regola per salvarle la vita.

“Esistenza” è il primo libro della tetralogia omonima di Abbi Glines a giungere in Italia con dieci anni di ritardo rispetto all’uscita americana tramite Hope Edizioni. Quando l’ho iniziato avevo buone aspettative, vero che su fantasmi e spiriti è stato scritto e girato un po’ di tutto, ma l’idea di un’anima (uso questo termine perché è quello che adopera l’autrice) che importunava una vivente aspettandola seduto su una panchina mi allettava.
Di aria nuova in questo libro ce n’è, anche se piuttosto rarefatta. La protagonista è Pagan, una liceale che, da sempre, vede le anime. Queste, a differenza di altri libri/film/serie tv non parlano e sono piuttosto facili da ignorare. Vagano sulla Terra in cicli eterni senza scopo o possibilità di andare avanti perché queste anime sono quelle di coloro che hanno rifiutato di seguire il loro Mietitore (concetto non nuovissimo, ma poco diffuso nella lettura di genere). Pagan, per altro, non ha mai detto a nessuno di questa sua capacità, quindi ci risparmiamo il momento in cui i suoi amici assorbono l’idea del paranormale senza battere ciglio.
Il protagonista maschile, Dank, (come nota personale, i loro nomi proprio non mi piacciono) è un’anima, ma, ovviamente, non è come le altre. Qua si potrebbe pensare: ecco, la Glines si gioca la carta dello spirito eccezionale per far scoppiare l’amore: spiacenti, non è questo il caso. Se Dank parla e pure tanto, è perché non è un’anima, ma la Morte. La Nera Signora, la Signora con la falce, il Tristo Mietitore è un essere con l’aspetto di un ventenne e due begli occhi blu. Ovviamente Pagan non lo sa e anche noi lo scopriamo solo quasi alla fine, anche se qualche sospetto arriva molto prima.
Come in molti altri romanzi di genere c’è anche un terzo, nella fattispecie un ragazzone tutto muscoli e cervello (però dislessico) che risponde al nome di Leaf. Leaf diventerà per Pagan un’ancora cui aggrapparsi per non affogare. Persa nei sentimenti che prova per Dank, che troverà anche il modo per incarnarsi, Pagan cerca in Leif la normalità che le serve per non impazzire e, con grande pragmatismo, anche il modo per costruirsi una vita con qualcuno che può davvero essere con lei. Pagan dice più volte di non amare Leif, di volergli bene come al migliore degli amici, di sentirsi in colpa perché lui invece innamorato lo è eccome, ma non lo lascia mai, più per egoismo che per altro; un egoismo che ho apprezzato perché era facile arrivare a trovarla parecchio antipatica.
Purtroppo noi non odiamo Pagan e neanche Dank, a dire il vero è difficile provare un qualche tipo di sentimento per questi due perché il ritmo del romanzo è terribilmente lento.
Per quasi tre quarti assistiamo all’eterno balletto di avvicinamento e allontanamento fra Dank e Pagan, i “vorrei stare con te, ma non posso”, “ho già infranto abbastanza regole”, “staresti meglio senza di me” et similia si susseguono troppo spesso. Il tono è spesso freddo, a tratti quasi impersonale. Credo che la Glines volesse mettere in luce il grande divario che c’è fra i due protagonisti, la fatica che mettono nello stare lontani, il dolore che gli costa, ma quello che io ho sentito è solo un grande distacco. Per il primo quarto non si ha idea di chi sia Dank e perché giri intorno a Pagan in quel modo e quando finalmente ti viene un sospetto non viene né confermato e né spazzato via. Certo, dispiace per Leif, che fra tutti è il personaggio con più spessore, ma lui non è il centro della storia. Ogni volta che il romanzo sembra prendere il via viene fermato da una descrizione, da un evento minore o da un monologo di Pagan. Solo sul finale la Glines schiaccia l’acceleratore a tavoletta e ho divorato una pagina dopo l’altra quanto meno per sapere se ci avevo visto giusto o no. La conclusione è buona, anche se prevedibile, ho apprezzato soprattutto l’idea che a volte il vero sacrificio non sia morire, ma vivere, perché a volte è così che va (non che impazzisca a leggere di un’adolescente che ragiona così, ma abbiamo sopportato Bella Swan che accettava senza battere ciglio di morire di parto). Avverto che il finale non è chiuso, o almeno lo è solo in parte. Il cliffhanger (secondario) è interessante, ma, per ora, sa di già visto.
Alla fine di questa recensione mi sento obbligata a scrivere che questo è il romanzo d’esordio della Glines e che risale al 2011, in alcuni punti si sente la differenza fra il tempo del romanzo e il nostro, ma è del tutto imputabile al fatto che ne sia passato così tanto.

